Sono tornata al Vittoriale, dopo tantissimi anni. Ci ero stata da studentessa, quando tutto mi sembrava enorme, distante, quasi incomprensibile. Il Vittoriale, con la sua architettura surreale e i suoi spazi affollati, era un mondo a parte. Lì dentro ci sono i miei sogni universitari, sparsi tra una gita organizzata e un taccuino pieno di appunti maldestri. Ricordo l’impressione di quel luogo, ma non avevo ancora gli strumenti per decifrarlo davvero.
Il Vittoriale non è solo un museo: è la casa di D’Annunzio, un “palazzo” che lui stesso ha voluto e costruito, come un rifugio privato, come una dimora dell’ego. Una casa che è anche un’opera d’arte, un teatro della sua vita e delle sue contraddizioni.
Ma oggi, a distanza di anni, lo guardo con occhi completamente diversi. Ogni stanza, ogni eccesso, ogni dettaglio, mi parla ora in un’altra lingua. Quella della consapevolezza, forse. O solo del tempo passato.
Eppure lo tenevo nei pensieri, come si tengono le cose importanti: in sospeso, sul margine del fare. Rimandato, come si rimandano gli appuntamenti con ciò che ci somiglia troppo.
Ho camminato tra quelle stanze fitte, buie, cariche fino a scoppiare. Un museo dell’ego, sì. Ma anche qualcosa di più sottile, più inquieto: una sfida al tempo. Come a dire, con ogni centimetro: “Guardami. Io non finisco.”
D’Annunzio non ha mai fatto le cose a metà. Ogni gesto, ogni stanza, ogni parola è misura dell’eccesso. Un eccesso che non è solo estetico, ma esistenziale. Tutto il Vittoriale sembra gridare: “Io esisto perché possiedo”. Possiedo oggetti, memorie, imprese. Possiedo il tempo, lo piego alla mia narrazione. Possiedo perfino la morte, che trasformo in scena, in citazione, in trofeo.
E in mezzo a questa scenografia perpetua, ho trovato una frase. Non gridava. Non si metteva in posa. Ti si infilava, invece, nelle costole: “Io ho quello che ho donato. Per non dormire e per non morire.” Mi ha colta in contropiede. In un luogo dove tutto sembra urlare “questo è mio”, quella frase era un paradosso. Un cortocircuito. Come se, sotto tutti quei veli, fosse rimasta una verità nuda.
Perché noi oggi viviamo per trattenere. Per accumulare. Per possedere qualcosa che ci rassicuri sul fatto di essere vivi. Raccogliamo esperienze, immagini, parole, persone. Ci riempiamo le mani, come se la quantità potesse salvarci dalla vertigine del nulla.
E invece D’Annunzio – proprio lui, l’uomo dell’eccesso, del possesso, del “tutto mi è dovuto” – ci consegna un pensiero spiazzante. Ci dice che ciò che davvero possediamo è solo ciò che abbiamo saputo donare.
Fa male, questa verità. Perché ti costringe a guardare le mani vuote dopo gli amori sprecati. I silenzi rimasti tali. Le cure non date. Le parole trattenute per orgoglio. I gesti rimandati a un domani che non è mai venuto.
Il paradosso è tutto qui: D’Annunzio, il più avido, il più scenico, ci dice che si vive solo donando. Che si sopravvive solo lasciando qualcosa che non torna indietro. Non per generosità, ma per scongiurare la vera morte: quella dell’oblio.
“Per non dormire.” Perché donare è l’antidoto al torpore. È la sola forma di veglia che ci è concessa. Dare – davvero, con presenza, con verità – significa rifiutare l’anestesia dell’abitudine. Significa dire: “io sono qui. Non solo per me.”
“Per non morire. ” Non è una frase poetica. È un’incisione. Perché si può morire senza che il cuore si fermi mai. Si muore nella ripetizione vuota. Nel vivere in difesa. Nel non rischiare. Nel preferire il sonno quieto alla possibilità del dolore.
Donare è un rischio enorme. Espone. Disarma. Sporca le mani. Ma è anche ciò che ci ancora alla vita, che ci impedisce di evaporare nell’indifferenza. E allora sì, forse D’Annunzio aveva capito. Dietro l’estetica, le imprese, i miti, le maschere – l’unico possesso autentico che gli è rimasto è ciò che ha saputo lasciare. Non importa cosa abbia dato: bellezza, provocazione, parole, desiderio. L’ha lasciato. E così l’ha tenuto.
Il Vittoriale, alla fine, è questo: un monumento eretto non alla gloria, ma alla sopravvivenza del dono. È il teatro dell’eccesso che, nel suo ultimo atto, si fa confessione.
Sono uscita con una sensazione strana, affilata. Come se tutto – ogni stanza, ogni oggetto, ogni gesto – ruotasse intorno a quella sola frase. Come se tutto gridasse il suo opposto per nascondere il cuore segreto: che il vuoto che sentiamo non nasce da ciò che ci manca. Nasce da ciò che non abbiamo ancora dato. E forse, davvero, l’unico modo per restare vivi è continuare a offrire ciò che ci costa. Ciò che ci espone. Ciò che ci rende svegli. Per non dormire. E per non morire.
Quadro raffigurato: Il trionfo di Bacco di Peter Paul Rubens, 1629-1630