Ci sono momenti in cui lo spirito, pur vestito di compostezza e misura, è in realtà tenuto in ostaggio da un desiderio mai sazio di previsione, di sicurezza, di dominio. È il culto sottile del controllo — non quello saggio che protegge, ma quello compulsivo che imprigiona. Tendiamo l’arco dell’intelligenza per anticipare l’incertezza. Affiniamo lo sguardo per non farci sorprendere dalla vita. Ma quanto di ciò che chiamiamo “responsabilità” è in realtà paura mascherata? E quanto abbiamo perso, irrigiditi nella mappa, mentre il sentiero si rivelava sotto i nostri piedi? In noi convivono due nature: una è vigile, razionale, architetto di sistemi e strategie, l’altra è silenziosa, sensibile, alleata del mistero e della resa.
Quando una prende tutto lo spazio, l’altra si atrofizza. E così accade che si viva non nella pienezza, ma nel sospetto. Non nel fluire, ma nell’argine. Ma arriva un tempo — e se stai leggendo, forse è questo — in cui quella forma comincia a scricchiolare. Non per fallimento, ma per fame di autenticità. Non per debolezza, ma per necessità di vivere davvero. E allora nasce il gesto. Due lettere. Due voci. Due parti di te che è tempo di ascoltare.
Scrivere al tuo Sé che controlla
Non iniziare con la penna. Inizia con il corpo. Siediti. Respira. Lascia che emergano immagini, sensazioni, memorie. Pensa a quella parte di te che tiene tutto insieme. Quella che anticipa ogni rischio, che sorveglia anche la felicità, che si contrae di fronte a ogni imprevedibilità.
Prima di scrivere, chiediti: Quando hai preso il comando? Da cosa volevi proteggermi? Quanto hai dovuto lavorare per tenermi al sicuro? Quanta fatica hai sopportato in silenzio, mentre io ti ascoltavo come se fossi infallibile?
Scrivi da lì.
Non accusare. Non glorificare. Guarda in faccia questa parte con rispetto.
Poi osa le domande più vere: Cosa stai ancora cercando di evitare? Cosa temi accadrebbe, se lasciassi andare il controllo? E cosa potremmo finalmente sentire, se tu ti fermassi per un attimo?
E prova a dirgli, senza forzare: Puoi riposare. Non sei solo. Non serve più salvare tutto.
Scrivere al tuo Sé che si fida
Questa parte, forse, non ha mai avuto voce. È delicata, ma antica. È quella che guarda il cielo e dice: “Non so, ma ci sono.” Non si impone, non ragiona per schemi. È una presenza.
Prima di scriverle, fermati. Ascolta.
Quando l’ho sentita, anche solo per un istante? In quale gesto, sguardo o attimo ho sentito che potevo lasciarmi andare… e il mondo non è crollato?
Scrivile.
Dille che l’hai ignorata, che a volte l’hai creduta ingenua. Ma che ora sei pronto, anche solo per un frammento, a lasciarle spazio.
E osa chiederle: Cosa succederebbe se oggi non avessi tutte le risposte? Posso imparare a restare, anche nell’incertezza? Se smettessi di trattare la vita come un problema da risolvere, potrei forse iniziare a viverla?
Dille che non chiedi miracoli. Solo compagnia. Solo respiro.
Dopo le lettere, non aspettarti sollievo immediato. Questo non è un esercizio. È un passaggio. Non si tratta di scrivere bene, ma di scrivere vero. Qualcosa cambierà. Forse non oggi, forse non in modo clamoroso. Ma sentirai che c’è più spazio. Che dentro di te non c’è solo chi sorveglia, ma anche chi accoglie. E che puoi abitare entrambi — senza lasciare che uno domini l’altro.
Non devi volare perfettamente. Solo volare. Il controllo non è un errore. È una protezione diventata rigida. Una vecchia pelle. Una logica sopravvissuta oltre il suo tempo. Ora puoi scegliere. Puoi aprirti all’imprevedibile. Puoi lasciare che qualcosa accada anche senza la tua presa costante.
E allora, come Rilke ci ricorda — non da maestro, ma da fratello: “Abbi pazienza con tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e prova ad amare le domande”. Perché il contrario del controllo non è il caos. È la fiducia. E fidarsi, un po’ alla volta, è l’inizio di ogni libertà vera.
Quadro raffigurato: L’annunciazione di Henry Ossawa Tanner, 1898