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TANTO TU SEI DIVERSO DA ME, QUANTO IO RICONOSCO ME

Nella mia famiglia, abbiamo una tradizione che amo particolarmente: i mantra. Sono semplici frasi, ricche di significato, che ci accompagnano nella quotidianità e che spesso diventano piccoli fari di luce nei momenti di difficoltà. Mi piace scriverli su post-it colorati e appenderli in casa: sul frigorifero, accanto agli specchi, o persino sulla porta d’ingresso. È un modo per ricordare a noi stessi alcune verità fondamentali, che a volte possono sfuggirci tra la frenesia delle giornate.

Uno dei mantra più preziosi, che mi capita di utilizzare soprattutto per aiutare i miei figli nei momenti di difficoltà con le amicizie, è: “Tanto tu sei diverso da me, quanto io riconosco me.”

È una frase che porta dentro una piccola rivoluzione silenziosa. Parla di alterità, sì — ma anche di riflessi. Di quanto ogni relazione, ogni incontro autentico, ci faccia da eco. Di quanto l’altro non sia solo “diverso”, ma anche rivelatore.
Quando diciamo che qualcuno è “diverso da noi”, spesso lo facciamo per prendere le distanze. Ma se ci fermiamo, se ascoltiamo davvero, ci accorgiamo che nella diversità dell’altro, qualcosa di noi viene alla luce. Forse è una parte che avevamo dimenticato. Una ferita comune. Una fragilità speculare. Un desiderio che non sapevamo di avere.
L’altro, nella sua unicità, ci obbliga a guardarci dentro. A chiederci chi siamo, cosa ci tocca, dove iniziamo e dove finiamo.
Questa frase ci ricorda che non esiste riconoscimento dell’altro senza un riconoscimento di sé. Più io sono in contatto con la mia interiorità, con le mie ombre, le mie luci, i miei limiti, più riesco a vedere l’altro nella sua interezza, senza bisogno di negarlo o di difendermi da lui. E al contrario: più mi distacco da me stesso, più rischio di leggere l’altro come un “nemico”, un “estraneo”, qualcosa da giudicare o respingere.

Il punto d’incontro è lì: nella consapevolezza. Nella capacità di dire: “Tu sei altro da me. Ma proprio per questo, mi fai vedere meglio chi sono io!”. Difatti, l’altro, nella sua unicità, ci mostra chi siamo: attraverso ciò che accettiamo, ciò che rifiutiamo e ciò che ci colpisce .
Quando smettiamo di voler far diventare l’altro “uguale a noi”, e iniziamo a riconoscerlo nella sua diversità, nasce un tipo di incontro raro e prezioso. Non più relazione basata sul bisogno di rassomiglianza, ma sul rispetto profondo. Non più relazione che esige, ma che accoglie.

È lì che succede qualcosa di vero. Lì dove io non perdo me stesso nell’altro, ma mi scopro, proprio attraverso di lui. Lì dove non mi proteggo con maschere, ma mi apro, perché so che anche la mia verità può essere accolta. È una chiave relazionale, un invito all’ascolto profondo, al dialogo autentico, alla maturità emotiva. È un modo di stare nel mondo con occhi nuovi: meno giudicanti, più curiosi. Meno difensivi, più aperti.

Alla fine, forse il viaggio più importante che facciamo è proprio questo: riconoscere noi stessi abbastanza da poter riconoscere davvero l’altro. E allora, nella sua diversità, non troveremo più una minaccia. Ma un richiamo. Una possibilità di espansione. Perché sì: tu sei diverso da me. Ma proprio per questo, mi aiuti a ricordare chi sono.

Quadro raffigurato: Bush flowers di Kemmar Beasley, 2022